SICILIA ARABA , Al-Siqilliyya: rebab siciliani del secolo XII

SICILIA ARABA , Al-Siqilliyya: rebab siciliani del secolo XII

Osservando i dipinti della Cappella palatina di Palermo e quelli della Cattedrale di Cefalù, eseguiti nella prima metà del secolo XII probabilmente dai medesimi artisti di scuola arabo-persiana, avevo notato che alle spalle dei suonatori ci sono spesso dei vasetti di forma e colore simile ai Rebab. Questi strumenti ad arco appaiono essere di due taglie leggermente dissimili: uno più piccolo a due corde e uno più lungo, a tre corde. La figura di quei vasi, che per di più erano attraversati da fasce decorative molto simili a quelle presenti tra il manico e la tavola armonica dei Rebab (come anche degli Oud), mi suggerì l'idea di tentare di ricostruirli con la cassa in ceramica invece che scavati nel blocco di legno.

 

                                                     

 

Qui occorre precisare che i Rebab delle pitture siciliane sono diversi da quelli raffigurati in qualsiasi altra pittura medievale, eccezion fatta per quelli, in alcune parti somiglianti, che si trovano nelle miniature delle Cantigas de S.Maria, d'un secolo e mezzo posteriori. Inoltre, tutti gli strumenti analoghi presenti nelle tradizioni dei popoli che vanno dalla Persia al Maghreb hanno forma differente, differenti decorazioni. Per questo ritengo che si possa parlare, così come per i liuti, di STRUMENTI TIPICAMENTE SICILIANI realisticamente rappresentati dai pittori. In ogni caso, non si conoscono strumenti musicali a corde di questo genere che siano fatti in ceramica o con parti in ceramica. Nemmeno vi sono prove archeologiche di tale uso nei secoli o, per lo meno, non ne sono state ancora trovate o identificate tra i reperti ceramici rinvenuti in area mediterranea. Fa eccezione un ritrovamento fatto a Roma, d'un "guscio" fatto in ceramica e che è ritenuto essere parte d'uno strumento musicale del tipo dei "liuti a manico lungo", risalente però a ben 1000 anni a.C., un periodo piuttosto lontano da quello della Sicilia arabo-normanna. E' vero comunque che la ceramica viene tuttora utilizzata per la costruzione di strumenti a percussione come la Darbuka in uso nei paesi arabi: un calice slanciato realizzato in terracotta, spesso dipinta, viene chiuso da un lato con una pelle.

Infine, ho osato procedere con il mio esperimento. Ho fatto plasmare dei modelli da un esperto: il più piccolo con la cassa e il manico in un solo pezzo in ceramica, cui ho applicato la tavola armonica in pelle e la tastiera con rosetta in legno e infine il piccolo cavigliere con due piroli, il più grande con la sola cassa in ceramica e tutto il manico in legno. Avendo avuto l'accortezza di lasciare non ceramizzato il bordo superiore della cassa e con dei forellini predisposti nel bordo inferiore, è stato facile incollarvi la pelle e fissarla con piolini di legno poi recisi, e la parte superiore con rosetta e tastiera in legno, utilizzando la stessa colla organica che si usa normalmente in liuteria. Il cavigliere del modello piccolo viene fissato all'estremità del manico ceramico, predisposta con un apposito foro, mediante una spina di legno e la stessa cosa avviene per la giunta cassa-manico nel modello grande.

Il risultato acustico è sorprendente: gli strumenti hanno suono potente, attacco pronto, un timbro meno dolce di quelli fabbricati in legno. All'obiezione che viene fatta dai musicisti di oggi circa la fragilità della terracotta rispondo che tali strumenti non correvano rischio alcuno, usati com'erano fra i cuscini e i tappeti della corte reale. L' immagine del musico itinerante, del jongleur, del menestrello, cara all'immaginario della musica medievale, è pertinente agli ambienti dell'Europa continentale. Certo, in questo caso lo strumento ideale è solo quello ben scolpito in solido legno.

Questa esperienza è spiegata dettagliatamente in un articolo che ho scritto nel 2014 per il convegno sulla liuteria medievale che si tenne a Parigi e a Chartres in quell'anno. 

 

                                                         

 

 

 

                                                

 

                             

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SICILIA ARABO-NORMANNA: OUD (o Barbat?) IN "LEGNO" DI PALMA 1.

SICILIA ARABO-NORMANNA: OUD (o Barbat?) IN "LEGNO" DI PALMA 1.

L'idea di utilizzare legno di palma per tentare di costruire un Oud, o meglio sarebbe dire Barbat, scavandolo in unico blocco mi è venuta cercando un materiale più conveniente rispetto a quelli comunemente usati nella liuteria medievale, come tiglio, cipresso, acero o addirittura quercia, come nel caso di un Oud costruito con successo, ma con eccessiva fatica,  da un mio collega. Quando ho notato che l'unico albero raffigurato nelle pitture della Cappella palatina di Palermo (sec. XII) era la Palma, pensai di provare, benchè non si abbia notizia del suo utilizzo in nessuna tradizione di liuteria a me nota, nè occidentale nè africana o orientale.

 

  

 

 Supponendo che si tratti di Palma da datteri (Phoenix dactilifera) ho cercato dei tronchi e ne ho trovati moltissimi in zona (Randazzo-Etna), poichè molte piante sono state abbattute negli ultimi anni causa l'attacco di un parassita. La varietà è Phoenix canariensis.

 

                                                                                            

 

La parte esterna del fusto non promette bene, infatti è molle, fibrosa e pelosa, ma più si va verso l'interno e più la consistenza spugnosa lasca posto a una fibra compatta, sebbene intrisa di acqua.

Appena si aprono i tronchi l'acqua comincia a evaporare dalla superficie tagliata, che appare costituita da una fitta serie di fibre allungate di colore crema immerse in un impasto più tenero color nocciola. Scavando il blocco si estrae con facilità il materiale, utilizzando ascia e sgorbie e via via il materiale va rapidamente asciugandosi. 

                                                                                                                                       

     

                                                                                               

 

Per la facilità della lavorazione sembra che la scelta di questa particolare fibra vegetale, che non può propriamente chiamarsi legno, sia dunque plausibile. Pur rimanendo su uno spessore tra 1 e 2 centimetri, il peso della cassa armonica dello strumento, di dimensioni identiche a quelle di un Oud attuale, si aggira intorno a 1 chilo e 700 grammi. La croce interna di rinforzo pesa circa 180 grammi.

Questa croce serve per sostenere al centro la tavola armonica, prevista in pelle di capra, spessore 0.2 millimetri e per evitare che la tensione della pelle possa curvare i bordi della cassa verso l'interno. 

 

 

                                                   

                                                     

 

In questa fase del lavoro la fibra di Palma resiste, presentando qua e là lievi fessure e spaccature, facilmente riempite e saldate con colla organica. Usare la rasiera in acciaio per la rifinitura esterna non da buoni risultati perchè la superficie si segna con solchi trasversali. Carta vetrata e abrasivi creano molta polvere, ma riescono a rendere liscia e omogenea la superficie dell'oggetto.

A un mese dall'inizio della lavorazione non si nota alcun ritiro del materiale.

(1. continua)

 

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CEFALU': QITARA (oud piccolo) DAI DIPINTI DELLA CATTEDRALE

CEFALU': QITARA (oud piccolo) DAI DIPINTI DELLA CATTEDRALE

Nel 1997 ricevetti incarico dall'associazione culturale "La Corte di Ruggero", nella persona del sig. Giovanni Biondo di Cefalù, di ricostruire uno strumento a corde dai dipinti della Cattedrale della loro città.

Dopo aver studiato le immagini, che risalgono al secolo XII e che da alcuni studiosi vengono attribuite agli stessi artisti che eseguirono le pitture dei soffitti della Cappella Palatina di Palermo, mi resi conto che c'erano due particolari di rilievo: la tavola armonica di colore chiaro senza traccia di fori di risonanza e una fascia scura alla base del manico.

La tavola chiara senza fori è interpretabile come una membrana in pelle, che realizzai utilizzando una pelle di capra come quella dei tamburelli, spessore mm.0,2. La fascia scura, spiegabile come una semplice decorazione, la interpretai all'epoca come uno scalino che consentiva un comodo incollaggio dei bordi della tavola armonica. Oggi, alla luce di più approfondite conoscenze, ho un'idea diversa a riguardo. La fascia di colore più scuro, presente in tutti gli strumenti a corde di Cefalù e della Cappella palatina di Palermo, assente nelle raffigurazioni di strumenti simili coevi, anteriori e successivi, provenienti da tutta l'area che va dall'Iran fino all Spagna, era probabilmente una piastra di rame lavorata a sbalzo e forata, oppure in legno, per consentire la fuoriuscita del suono. Si tratta di una caratteristica peculiare di tutti gli strumenti a corde siciliani.

 

                                                                        (Cappella palatina, Palermo)

 

Lo strumento, scavato in un solo blocco di Cipresso, con tre cori in budello, venne presentato a Cefalù in una bellissima occasione, creata dal sig. Italo Gomez nell'ambito di un convegno organizzato dall'Università di Palermo. Lo strumento fu suonato da un gruppo di Tunisi, che eseguiva brani della Nuba. Il suono risultava gradevole e potente, apprezzabile anche dai musicisti della tradizione nord africana.

Dopo di allora ne realizzai diversi altri esemplari, richiesti da vari musicisti, mentre il primo fu esposto per alcuni anni all'Osterio magno e in seguito nel Museo della Cattedrale di Cefalù.

 

                                                                   

 

 

                                                                     

 

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CAPPELLA PALATINA DI PALERMO : QITARA

CAPPELLA PALATINA DI PALERMO : QITARA

Tra i dipinti della Cappella palatina di Palermo uno mostra due musicisti, seduti sotto una palma, che suonano un Oud e una Qitara (gittern).

 

                                                                                  

 

Quest'ultima ha certamente la tavola armonica in pelle. Rispetto allo strumento più comunemente rappresentato (in basso a sinistra dai soffitti della Cattedrale di Cefalù, a destra dalla cappella Palatina), questo strumento sembra essere più esile e non presenta la fascia colorata tra la tavola armonica e il manico, comune anche alle rappresentazioni degli Oud a quattro o a cinque cori e dei Rebab a due e a tre corde.

 

                 

 

Ho realizzato lo strumento scavando il corpo in legno di palma (Phoenix canariensis) poi ho utilizzato cipresso per il cavigliere, abete per la testa, pelle di capra spessore mm.02 per la tavola armonica, corde in budello, piroli in legno di Tamerice, ponticello in Pioppo. La colla utilizzata è quella organica d'ossa.

Diapason cm.47, peso totale grammi 600.

 

                                  

 

 

  

                 

 

 La finitura esterna della cassa e del manico sono state realizzate con due mani di Gommalacca naturale.

 Il suono è delicato e ricco di armonici.

 

 

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SICILIA ARABA MUSICA

SICILIA ARABA MUSICA

Abbiamo in Sicilia la più strepitosa raccolta di immagini musicali del secolo XII di tutto il Mediterraneo: i dipinti arabo-persiani della Cappella Palatina di Palermo e della cattedrale di Cefalù.

Dal 1997 studio questi repertori iconografici preziosissimi, confrontandoli con tutti quelli provenienti dai paesi mediorientali, dagli stati nordafricani e dalla Spagna.

L'apporto di tanti specialisti e studiosi di questi paesi mi ha portato ad identificare caratteristiche specifiche degli strumenti a corde siciliani di quell'epoca: Oud (Barbat), Rebab, Qitara.

Tali particolarità mi hanno indotto a effettuare adeguate sperimentazioni nella ricostruzione di strumenti musicali che non sono affatto identici a quelli attualmente in uso nei paesi di cultura araba: Oud, Rebab, Guimbri, Loutar.

Il confronto con tali strumenti, con le prassi costruttive ed esecutive di oggi è certamente imprescindibile, come anche la ricerca sui repertori, di cui abbiamo totale carenza, ma ciò non ha reso inutile la ricostruzione e la sperimentazione al fine di riprodurre gli strumenti raffigurati nel modo più fedele e riproducendo le loro peculiari caratteristiche.

E' così che non abbiamo timore di affermare che veramente esistevano l' Oud siciliano, i Rebab e la Qitara siciliani.

 

 

     

     

                                               

 

       

La Cappella Palatina del Palazzo dei Normanni di Palermo fu edificata intorno alla metà del secolo XII per iniziativa del re Ruggero II. Famosa per i mosaici che ne adornano tutte le pareti e la cupola, conserva anche  soffitti lignei di gran pregio, finemente dipinti. Il soffitto della navata principale, con struttura alveolare, detta “a muqarnas” è di difficile fruizione, trovandosi a 15 metri di altezza in area poco illuminata. Le decorazioni pittoriche dei due soffitti a trabeazione delle navate laterali sono invece molto più visibili.

Le pitture sono opera di maestranze di scuola “Arabo-persiana”, il cui stile inconfondibile si dispiega su tutte le superfici possibili dimostrando una chiara tendenza all’ “horror vacui”.

Con colori accesi e senza risparmio di motivi decorativi vengono raffigurati personaggi per lo più recanti strumenti musicali, identificabili secondo alcuni con le “Uri” del paradiso islamico, secondo altri con personaggi della Corte. Nei contorni delle stelle ottagonali che costituiscono gli scomparti principali della complessa struttura alveolare vi sono dipinti versetti del Corano in caratteri cufici, che da lontano si prendono per ghirlande e decorazioni.

I pittori, provenienti dal medio-oriente o siciliani, non sappiamo, ritrarrebbero il Paradiso islamico, identificabile però anche con la vita e le delizie della Corte reale.  Le Uri suonano i loro strumenti in magnifici giardini adorni di palme, di tralci di vite con grappoli d’uva e pampini, circondate da vasetti che presumibilmente contengono meravigliosi profumi o liquori. Analoghe a quelle di Palermo sono le pitture che adornano le travi del soffitto della Cattedrale di Cefalù in cui sono ritratti gli stessi soggetti dipinti col medesimo stile. Purtroppo si tratta di pochi frammenti dell’opera originale, situati oggi in un luogo quasi inaccessibile. Dedicò ad essi qualche pagina il prof. Carlo Emilio Carapezza di Palermo sulla rivista Nuove Effemeridi, una trentina di anni fa e una delle immagini da lui pubblicate , quella di una suonatrice di Qitara, diede impulso a un lavoro di ricostruzione dello strumento che mi fu affidato nel 1997. L’esito del lavoro fu spettacolare, con un concerto di musiche del mediterraneo svolto nella Cattedrale di Cefalù, per iniziativa di Italo Gomez. 

Solo successivamente rivolsi la mia attenzione ai dipinti della Palatina, studiando soprattutto i Rebab (cordofoni ad arco) in vista della loro ricostruzione, che negli anni ho effettuato producendo molteplici esemplari in due taglie diverse: piccoli a due corde e più grandi a tre, ma soprattutto sperimentando la costruzione della cassa di risonanza in ceramica, oltre che in legno.

La fortuna di avere incontrato una troupe di archeologi-registi mi permise di avere delle belle immagini dei soggetti musicali della Cappella, altrimenti irreperibili.

Passeggiando sotto le due navate laterali si possono scorgere una serie di musici che suonano degli Oud (liuti arabi). Sono in vesti di colore  bruno-rossiccio con fasce dorate, ritratti a mezzo busto e provvisti di aureole. Questi personaggi sembrano piuttosto “cristianizzati”, rispondono cioè, essendo forse più in vista, a delle convenzioni iconografiche familiari all’arte cristiana, pur restando, nel colore e nella tipologia degli strumenti, uniformi al contesto generale delle pitture. Fa eccezione una splendida suonatrice di Rebab che, in ampie vesti bianche, sedendo a gambe incrociate, priva di aureola, suona con aria estatica il suo slanciato strumento ad arco a tre corde.

Passando a considerare le figure del soffitto centrale, solo disponendo di strumenti di ingrandimento, possiamo individuare numerose suonatrici, di Oud, di Qitara (liuti piccoli), di Rebab a due e a tre corde, e di Salterio (uno solo), più qualche rara raffigurazione di suonatrici di flauto e di percussioni. Qui la postura, gli abiti, gli sfondi, rispecchiano in pieno un’ambientazione e uno stile  medio-orientali, senza concessioni.

Il Liuti (Oud) sono gli strumenti più raffigurati: hanno tutti la medesima struttura, con cassa ovale o piriforme e 5 corde doppie suonate con sottili plettri, cavigliere riverso all’indietro,  decorazioni geometriche.

Seguono le Qitare, versione più piccola, sottile e slanciata del Liuto, con tre corde doppie, suonate a plettro e cavigliere ricurvo adorno di una testa scolpita, di solito ritraente un cane (Cirneco?). La ricostruzione di questo tipo di strumento, con tavola armonica in pelle di capra (la stessa che si usa per i tamburelli siciliani), corpo monoxilo e corde in budello, ha dato risultati sorprendenti: ci si poteva aspettare un suono secco, come nel Banjo, invece il timbro è risultato dolcissimo, senza mancare del giusto volume.

I Rebab a due o tre corde sono da annoverare tra i primi strumenti ad arco raffigurati in Europa. Le tavole armoniche in due colori suggeriscono una fattura in due materiali: legno e pelle.  La forma e il colore degli strumenti, che richiamano da vicino i vasetti alle spalle delle suonatrici, fanno pensare alla possibilità che le casse armoniche, ancorché di legno scavato, potessero essere realizzate in ceramica. La ricostruzione di questi strumenti ha rivelato che quelli fatti in ceramica forniscono un suono potente con attacchi immediati, mentre quelli in legno hanno una sonorità più delicata.

Il Salterio di forma quadrata costituisce un “unicum” tra gli strumenti della Cappella e mostra con chiarezza dei piccoli ponticelli, molto probabilmente mobili, che possono indicare una interessante soluzione per variare a piacimento le possibilità di esecuzione di diverse scale o “maqam”. Di questo strumento ho in progetto una ricostruzione, basata anche sul confronto con i salteri di forma analoga in uso presso i monasteri occidentali e di cui abbiamo numerose raffigurazioni e descrizioni. Non dimentichiamo che le origini di questo strumento sono da ricercare nel mondo medio-orientale in epoca precedente la nascita di Cristo e che successivamente esso entrò a far parte delle tradizioni dei popoli del Mediterraneo diffuse poi nel Continente attraverso la cultura cristiana.

Per quantità e qualità queste raffigurazioni di strumenti musicali  rappresentano una delle più interessanti e generose fonti di informazione organologica per l’Europa del XII secolo, eppure sono ancora poco note anche fra gli addetti ai lavori. Basti pensare che fino ad oggi è stata dedicata loro solo una piccola pubblicazione italiana e un breve articolo in una raccolta francese (1).

Non resta per ora che recarsi “in loco” armati di un buon binocolo per godere lo spettacolo di questa grande enciclopedia degli strumenti musicali della Sicilia dei tempi d’oro.

 

 (1) David Gramit, I dipinti musicali della Cappella Palatina di Palermo, Palermo, Officina di studi medievali, 1986.

Giuseppe Severini, La reconstitution des rebabs d’après les peintures du XII siècle de la Chapelle palatine à Palerme, in: L’instrumentarium du Moyen Age : la restitution du son. Paris, l’Harmattan, 2015.

 

 

                                        

 

          

 

    

       

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LA VIELLA DI NICOSIA

LA VIELLA DI NICOSIA

Nel 2012 iniziai a studiare la possibilità di ricostruire una Viella - un antenato medievale del nostro Violino - basandomi su iconografia siciliana. Ricordavo di aver notato alcune raffigurazioni di strumenti musicali durante una visita alla cattedrale di Nicosia (EN), così, anche approfittando del desiderio di due registi acesi, Daniele Greco e Mauro Maugeri, di girare un documentario sulla mia attività di liutaio, mi recai con loro sul luogo, dove potemmo verificare che i miei ricordi erano esatti. Sul capitello del primo pilastrino sul lato sinistro del portale centrale della cattedrale dedicata a S.Nicola si vedono scolpiti due musici. Uno di essi, acefalo e molto rovinato, imbraccia una Citola, strumento a corde pizzicate simile a una piccola chitarra, di cui si intuisce ormai solo un vago contorno, e l’altro, alla sua sinistra, pure acefalo, suona una Viella ancora perfettamente visibile. I miei due ottimi amici, entusiasti quanto me per la scoperta, decisero di incoraggiarmi e di aiutarmi a continuare le mie ricerche documentandole con fotografie e video professionali. Proseguimmo così alla volta di Messina e di Palermo, dove potemmo raccogliere altre testimonianze sulle Vielle: due sculture nelle rispettive cattedrali delle due città e un dipinto sul soffitto ligneo del palazzo dello Steri. Mentre i registi iniziavano a confezionare un vero e proprio documentario con le riprese effettuate, che vide la luce l’anno successivo col titolo di “SUONI D’OC”, io mi diedi da fare per iniziare lo studio e la ricostruzione della mia Viella.

Iniziai ad esaminare attentamente tutte le testimonianze trovate: tre del periodo compreso fra 1350 e 1380 e una, quella di Messina, del secolo successivo. Alla fine mi resi conto che la testimonianza più attendibile era proprio la prima da cui ero partito, ossia la piccola scultura della Cattedrale di Nicosia. Vi si vedono perfettamente raffigurati tutti gli elementi decisivi: il contorno “a otto” della cassa, i fori di risonanza, la cordiera, il ponticello, il manico e le corde. Unica pecca, la mancanza del cavigliere, andato distrutto nel tempo. Decisi che per questo particolare sarei ricorso al modello visibile nelle pitture dello Steri, coeve al portico di Nicosia, anche se la Viella colà raffigurata era ovale e non “a otto”. Superato questo scoglio dovetti stabilire le dimensioni da dare allo strumento e ricorsi al solito calcolo delle proporzioni tra esso e il corpo del suonatore. Arrivai a definire un oggetto del tutto simile a un Violino attuale per lunghezza e per diapason, ma con la cassa un po’ più larga e profonda. A questo punto bisognava scegliere il legno, anzi i legni e mi decisi per una bella tavola di Abete bianco spessa 4 cm. da cui intagliare il blocco Manico/Tavola armonica/Fasce laterali e una tavoletta da 1 cm. di Cipresso per il fondo. Qui urge una sosta per spiegare una particolarità che contraddistingue l’arte liutaria medievale da quella attuale. Nel Medioevo si usava scolpire lo strumento da un unico pezzo di legno quasi per intero. Negli strumenti a fondo curvo si usava scavare in un unico blocco la cassa e il manico, aggiungendo poi la tavola armonica. Negli strumenti a fondo piatto o lievemente incurvato si poteva procedere anche al contrario, scavando in un solo pezzo manico e tavola armonica e applicando poi il fondo. Entrambi i procedimenti sono accertati in sede storica, ma su tipi diversi di strumenti. Io propendo per applicare il secondo procedimento ogniqualvolta sia possibile e anche questa Viella è stata fatta così. Diversamente, nella liuteria classica e moderna, il Violino viene assemblato incollando le varie parti lavorate separatamente: tavola e fondo scavati, manico con cavigliere e riccio, fasce piegate a caldo ciascuna in tre pezzi giuntati con rinforzi interni in Abete. Così dopo un po’ di giorni di intenso lavoro ottenni la mia ricostruzione della “Viella di Nicosia”, non ancora verniciata ma pronta per comparire nelle ultime scene del documentario. Montai le corde in budello: doppio cantino, altre due corde a distanza di quinta e ottava dalla prima e infine una corda fuori dalla tastiera come si vede chiaramente nella scultura. Questo particolare è interessante: la corda esterna serviva per accompagnare l’esecuzione con un pizzicato o, suonata con l’arco, fungeva da bordone, visto che, per il suo spessore, difficilmente poteva essere tastata. Altra particolarità: lo strumento è sprovvisto di “anima”, quel cilindretto di legno che, in tutti gli strumenti ad arco dal 1500 ad oggi collega internamente la tavola col fondo, raddoppiando quasi l’intensità delle vibrazioni, poiché per i secoli del medioevo non è in alcun modo documentata. Il suono dunque risulta più diffuso e smorzato, adattissimo per accompagnare il canto, cosa molto apprezzata all’epoca dai Trovatori. Lo strumento era pronto ma senza vernice appariva rustico e non finito, però il suono era già bello. Nel corso del Duecento e del Trecento la verniciatura e la colorazione dei legni in liuteria non erano ancora pratiche affermate, spesso una mano di olio di mandorle veniva considerata sufficiente. Mi incoraggiai a suonare la Viella per la scena finale del documentario e così si concluse la prima parte del lavoro. L’anno seguente il film partecipò a diverse rassegne e ricevette un riconoscimento europeo in Slovenia. Io portai lo strumento in Francia al festival TROBAREA di musica medievale a Grasse (Nizza) e alle Journées de musiques anciennes di Venves, Parigi, dove lo strumento fu apprezzato e si dimostrò all’altezza dei suoi simili d’oltralpe, anzi brillò per il suo suono vivace e limpido. A un certo punto mi decisi a dare alla Viella una colorazione noce scuro e tre mani di gommalacca a spirito, con cui oggi si mostra al pubblico. Abbiamo avuto la gioia di presentare il documentario a Nicosia in una riunione pubblica presso il Municipio e ho suonato con la Viella alcuni brani tratti dal Laudario di Cortona proprio sotto la scultura del portale in un momento pieno di emozione e di suggestione. Oggi il nostro strumento si può vedere e ascoltare presso la Casa della Musica e della Liuteria di Randazzo, (www.secolibui.com) aperta tutti i giorni dalle 11 alle 17. Per prenotare le visite tel.349 4001357. Contatti: This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it..

Oppure direttamente guarda il VIDEO:

https://www.youtube.com/watch?v=j-0hmHv9loQ&t=2s

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A Randazzo il Medioevo risuona con i liuti di Giuseppe Severini

A Randazzo il Medioevo risuona con i liuti di Giuseppe Severini

A Randazzo il Medioevo risuona con i liuti di Giuseppe Severini

04/12/2017 - 15:51 di Maria Ausilia Boemi

E' un professore di lettere originario di Milano, da anni trasferito in Sicilia, che ricostruisce e fa riascoltare gli antichi strumenti musicali. Ha aperto una "Casa della musica e della liuteria medievale"

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Una didattica per turisti adulti e scolaresche che è anche un viaggio nel tempo e nelle proprie radici più antiche. Entrare infatti in questa casa - “scarnificata” dall’intonaco fino a riportare alla luce le pietre originali medievali per ritrovarne la vera anima, e con essa quella delle tante generazioni che vi hanno vissuto - significa fare un viaggio nel tempo attraverso la musica che, con le sue armonie, agli antichi serviva a spiegare il mistero del cosmo dentro e fuori di loro. «Il mio lavoro - spiega ancora Giuseppe Severini - consiste nello studio dei modelli antichi di strumenti musicali e nel tentativo di ricostruirli, creando degli oggetti funzionanti con cui si possa interpretare il repertorio originale che ancora abbiamo, in particolare dell’epoca medievale».

Il viaggio nel tempo, che coinvolge i sensi della vista e dell’udito, inizia da una “Citola” in costruzione, «strumento dalla timbrica particolare legata alla sua particolare forma e dimensione, realizzato scavando un pezzo unico di legno». Una lavorazione completamente diversa da quella del liuto, che invece si costruisce con diversi listelli di legno sottili per garantirne la leggerezza. Armonie sussurrate risuonano intanto con le corde pizzicate dal vento dell’arpa eolica sotto la sapiente direzione d’orchestra di madre natura. A queste si aggiungono i suoni armonici di antiche campane del Tibet, realizzate con una lega di 7 metalli, «7 come i pianeti (allora conosciuti), quindi con un significato cosmologico: si sentono benissimo i suoni armonici che sono quelli segreti della natura». Sopra uno spartito risalente agli inizi del 1200, dal Tintinnabulum rispondono intanto con suono squillante le campanelle che, all’epoca dei canti gregoriani, aiutavano i monaci a trovare l’intonazione.

 

 

 

«La nostra associazione “Secoli bui” - spiega Giuseppe Severini - si dedica alla ricerca e alla ricostruzione di particolari strumenti musicali, soprattutto medievali». Allo stupore degli occhi continua così ad aggiungersi l’incanto dell’udito, ascoltando melodie del passato lontano: c’è la “Simphonia”, nota volgarmente come “Organistrum” e ricostruita sulla base del ritratto presente sul Portico della gloria a Santiago de Compostela. Uno strumento che si suona in coppia, quindi scomodo e per questo ben presto abbandonato in favore della più maneggevole “Ghironda”: sono queste le prime «macchine per la musica medievali». Poi ci sono strumenti ad arco che, ricostruiti da Severini, raccontano la storia del violino: «Erano strumenti che si suonavano sulle ginocchia, come se fossero dei violoncelli, fino a quando si cominciano a sviluppare altri suonati a spalla, come la “Ribeca”, tratta da una pittura del 1070». E via via, da una melodia all’altra suonata da ciascuno di questi strumenti dal suono peculiare, fino al barocco di una chitarra battente realizzata da Severini, invece che con le doghe, su un pezzo di legno unico di salice rosso trovato nel fiume e decorata con la madreperla e «al salterio che si suona con le bacchettine e anticipa dunque un po’ il pianoforte». «Sette anni fa - racconta Severini - ho pensato di rendere visitabile il laboratorio di liuteria e di dedicare questa saletta con una quarantina di posti all’esposizione didattica di oltre 60 strumenti musicali e oggetti sonori, che inizia dalla preistoria - dalle conchiglie bucate alle mandibole di animali, dal corno ai flauti realizzati con ossa - passando poi all’antica Grecia - con ricostruzioni di strumenti come la “Kythara” o il “Barbitos” realizzato con il guscio di tartaruga, fino agli strumenti del Medioevo».

Un excursus che serve anche a ricordare come «l’eredità classica della teoria musicale e dell’astronomia fu tramandata grazie a Boezio che salvò, traducendole in latino, queste conoscenze importanti di matematica, aritmetica, astronomia e musica che altrimenti, nell’Europa barbarica, si sarebbero perse». Un mito filosofico classico, quello dell’armonia delle sfere per cui «all’ordine cosmico corrisponde un’armonia musicale», che oggi - con i dovuti “distinguo” scientifici - si sta in qualche modo recuperando, tanto che «l’anno scorso per la prima volta si è “sentito” il suono dell’universo. L’astronomia, che finora ha sempre lavorato con la vista, da qualche decennio a questa parte con i radiotelescopi traduce molti segnali in grafici e immagini e ora anche in suoni. La vibrazione dell’onda gravitazionale è stata così tradotta in suono. È un ritorno a determinate immaginazioni, perché la scienza in fondo è fatta di immaginazione, che poi va verificata o contraddetta. Gli strumenti musicali rispettano queste convinzioni profondissime degli uomini colti del Medioevo. Ad esempio, nel liuto, strumento universale proveniente dalla Persia e poi importato dagli arabi in Tunisia e da lì in Sicilia, la parte piana è la terra con le anime dei viventi e le corde sono i suoni: sono tutte cose scritte attorno all’ottavo secolo a Baghdad. Abbiamo così la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco e la relazione tra le cose è l’armonia e, dunque, l’anima del mondo; e quando uno suona il liuto è come se desse voce a quest’armonia, ovviamente legando l’anima universale a quella individuale».

Il legame con la terra di origine (per parte di madre), invece, è quello che ha spinto Giuseppe Severini, docente di Lettere nella natia Milano, a chiedere a 37 anni il trasferimento in Sicilia: «Sono da sempre molto legato a tutti i miei parenti che vivono in questa terra che amo moltissimo, tanto che a un certo punto mi sono detto: “Proviamo a viverci, magari resterò deluso, però è inutile restare con questo mito”. E quando mi sono trasferito, 23 anni fa, mi sono invece trovato benissimo». Lui e l’ex moglie (da cui ha avuto tre figli. Oggi Severini è sposato con una musicista) ottengono la cattedra a Maletto e Maniace e, dopo avere scoperto per caso Randazzo, perdendosi tra i vicoli medievali di questa cittadina, il liutaio ne rimane affascinato. Acquista la casa, oggi adibita in parte ad abitazione, in parte a laboratorio e museo. «Dopo 3 anni ho lasciato la scuola e mi sono messo a fare solamente il liutaio». Severini, infatti, oltre alla laurea in Filosofia con tesi in Storia medievale, aveva studiato musica - mandolino classico - al conservatorio di Padova. E la passione per gli strumenti musicali antichi? «Sin da piccolo ero appassionato del mondo antico, all’università ho studiato storia medievale, per cui avevo già questo interesse. All’epoca, negli anni ’70, ascoltavo i gruppi che facevano musica medievale e poi ho cominciato a studiare al conservatorio. Per gli studi, ci dovevamo fare costruire un tipo di mandolino barocco: sono andato dal liutaio e mi è piaciuto tantissimo. A poco a poco ho iniziato a costruirestrumenti semplici, da autodidatta, andando dal liutaio che avevo conosciuto a imparare, senza però mai iscrivermi alla scuola, perché già ero al conservatorio e volevo fare il musicista. E infatti ho cominciato a fare il musicista, suonando musica antica, soprattutto barocca, ma il repertorio mandolinistico è comunque limitato. Allora ho cominciato ad appassionarmi alla musica medievale. E alla fine la liuteria è diventata l’attività preminente».

Per la costruzione degli antichi strumenti, galeotto fu l’amore di Severini per la storia e l’opportunità di vedere gli strumenti conservati nei musei a teche aperte e «soprattutto di poterli toccare: lì ho capito cosa era la liuteria antica. Quella moderna è molto pesante, ma se si prende in mano un mandolino barocco del ’700 non pesa niente, sembra una piuma. L’impressione che fa toccare un oggetto di artigianato di quell’epoca è straordinaria: uno si rende conto di che lavoro c’è dietro, quale incredibile manualità. Pochissime persone riescono a fare ancora questo lavoro realizzando spessori così sottili». Pochi in Italia i liutai che ricostruiscono strumenti musicali del Medioevo, ma in generale questa è una categoria molto esclusiva: «Io ho venduto moltissimi strumenti anche qui in Sicilia (il prezzo può variare dai 500 ai 4-5.000 euro) quando c’era la moda della musica medievale, ma ora questa moda è finita».

Ma la liuteria è ancora un’arte che può dare lavoro? «Penso di sì: ci sono due scuole importanti in Italia, quella di Cremona e la scuola Civica di Milano dove ci si può specializzare sia in restauro sia in costruzione. Certo, come per le altre professioni, si studia e poi si spera di trovare un impiego. Uno che studia restauro, ad esempio, può aprirsi un laboratorio proprio o può entrare a fare il restauratore in un museo. Ho d’altro canto conosciuto però tanti studenti di liuteria che poi hanno fatto un altro lavoro».

Ma in fondo cosa ha fatto realmente innamorare della Sicilia questo estroso professore, che per due anni, per fare un’esperienza estrema, ha vissuto senza energia elettrica e senza gas (a riportarlo a un certo punto a più miti consigli moderni, la moglie)? «La luce, anzi una particolare vibrazione della luce che c’è solo in Sicilia. Questo è il primo dato percettivo, poi ovviamente ci sono i dati affettivi legati ai ricordi dei miei nonni. Ciò che inoltre mi ha affascinato di più, però poi vivendoci, è il contatto che a Randazzo posso avere con la natura, con gli elementi naturali. Se io esco da qua, tempo tre minuti sono in un mondo che sembra l’Eden: non ci sono coltivazioni, non si usano diserbanti, è bellissimo. Vero è che la natura la potevo trovare anche altrove: in Francia, in Spagna, ad esempio, c’è tutto come qua, la storia, la pietra, il legno. Ma manca l’Etna, che è magnetico di per sé. E anche se non sono mai salito ai crateri, mi basta la presenza di questo vulcano. Lui c’è».

E c’è, presenza invisibile, anche quando, uscite dall’antica casa-museo, sotto la pioggia si torna alla macchina lungo le stradine medievali di una Randazzo silente, in questo quartiere quasi spopolato: e, se non fosse per qualche rara auto parcheggiata nei punti dove le “vanedde” appena s’allargano, diresti di essere viandante del Medioevo tra le casette di pietra viva. Ma ormai è tempo di tornare nel XXI secolo, con la musica antica che tuttavia continua a mormorare melodie senza tempo, facendo vibrare le corde più recondite del cuore.

«La nostra associazione “Secoli bui” - spiega Giuseppe Severini - si dedica alla ricerca e alla ricostruzione di particolari strumenti musicali, soprattutto medievali». Allo stupore degli occhi continua così ad aggiungersi l’incanto dell’udito, ascoltando melodie del passato lontano: c’è la “Simphonia”, nota volgarmente come “Organistrum” e ricostruita sulla base del ritratto presente sul Portico della gloria a Santiago de Compostela. Uno strumento che si suona in coppia, quindi scomodo e per questo ben presto abbandonato in favore della più maneggevole “Ghironda”: sono queste le prime «macchine per la musica medievali». Poi ci sono strumenti ad arco che, ricostruiti da Severini, raccontano la storia del violino: «Erano strumenti che si suonavano sulle ginocchia, come se fossero dei violoncelli, fino a quando si cominciano a sviluppare altri suonati a spalla, come la “Ribeca”, tratta da una pittura del 1070». E via via, da una melodia all’altra suonata da ciascuno di questi strumenti dal suono peculiare, fino al barocco di una chitarra battente realizzata da Severini, invece che con le doghe, su un pezzo di legno unico di salice rosso trovato nel fiume e decorata con la madreperla e «al salterio che si suona con le bacchettine e anticipa dunque un po’ il pianoforte». «Sette anni fa - racconta Severini - ho pensato di rendere visitabile il laboratorio di liuteria e di dedicare questa saletta con una quarantina di posti all’esposizione didattica di oltre 60 strumenti musicali e oggetti sonori, che inizia dalla preistoria - dalle conchiglie bucate alle mandibole di animali, dal corno ai flauti realizzati con ossa - passando poi all’antica Grecia - con ricostruzioni di strumenti come la “Kythara” o il “Barbitos” realizzato con il guscio di tartaruga, fino agli strumenti del Medioevo».

Un excursus che serve anche a ricordare come «l’eredità classica della teoria musicale e dell’astronomia fu tramandata grazie a Boezio che salvò, traducendole in latino, queste conoscenze importanti di matematica, aritmetica, astronomia e musica che altrimenti, nell’Europa barbarica, si sarebbero perse». Un mito filosofico classico, quello dell’armonia delle sfere per cui «all’ordine cosmico corrisponde un’armonia musicale», che oggi - con i dovuti “distinguo” scientifici - si sta in qualche modo recuperando, tanto che «l’anno scorso per la prima volta si è “sentito” il suono dell’universo. L’astronomia, che finora ha sempre lavorato con la vista, da qualche decennio a questa parte con i radiotelescopi traduce molti segnali in grafici e immagini e ora anche in suoni. La vibrazione dell’onda gravitazionale è stata così tradotta in suono. È un ritorno a determinate immaginazioni, perché la scienza in fondo è fatta di immaginazione, che poi va verificata o contraddetta. Gli strumenti musicali rispettano queste convinzioni profondissime degli uomini colti del Medioevo. Ad esempio, nel liuto, strumento universale proveniente dalla Persia e poi importato dagli arabi in Tunisia e da lì in Sicilia, la parte piana è la terra con le anime dei viventi e le corde sono i suoni: sono tutte cose scritte attorno all’ottavo secolo a Baghdad. Abbiamo così la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco e la relazione tra le cose è l’armonia e, dunque, l’anima del mondo; e quando uno suona il liuto è come se desse voce a quest’armonia, ovviamente legando l’anima universale a quella individuale».

Il legame con la terra di origine (per parte di madre), invece, è quello che ha spinto Giuseppe Severini, docente di Lettere nella natia Milano, a chiedere a 37 anni il trasferimento in Sicilia: «Sono da sempre molto legato a tutti i miei parenti che vivono in questa terra che amo moltissimo, tanto che a un certo punto mi sono detto: “Proviamo a viverci, magari resterò deluso, però è inutile restare con questo mito”. E quando mi sono trasferito, 23 anni fa, mi sono invece trovato benissimo». Lui e l’ex moglie (da cui ha avuto tre figli. Oggi Severini è sposato con una musicista) ottengono la cattedra a Maletto e Maniace e, dopo avere scoperto per caso Randazzo, perdendosi tra i vicoli medievali di questa cittadina, il liutaio ne rimane affascinato. Acquista la casa, oggi adibita in parte ad abitazione, in parte a laboratorio e museo. «Dopo 3 anni ho lasciato la scuola e mi sono messo a fare solamente il liutaio». Severini, infatti, oltre alla laurea in Filosofia con tesi in Storia medievale, aveva studiato musica - mandolino classico - al conservatorio di Padova. E la passione per gli strumenti musicali antichi? «Sin da piccolo ero appassionato del mondo antico, all’università ho studiato storia medievale, per cui avevo già questo interesse. All’epoca, negli anni ’70, ascoltavo i gruppi che facevano musica medievale e poi ho cominciato a studiare al conservatorio. Per gli studi, ci dovevamo fare costruire un tipo di mandolino barocco: sono andato dal liutaio e mi è piaciuto tantissimo. A poco a poco ho iniziato a costruirestrumenti semplici, da autodidatta, andando dal liutaio che avevo conosciuto a imparare, senza però mai iscrivermi alla scuola, perché già ero al conservatorio e volevo fare il musicista. E infatti ho cominciato a fare il musicista, suonando musica antica, soprattutto barocca, ma il repertorio mandolinistico è comunque limitato. Allora ho cominciato ad appassionarmi alla musica medievale. E alla fine la liuteria è diventata l’attività preminente».

Per la costruzione degli antichi strumenti, galeotto fu l’amore di Severini per la storia e l’opportunità di vedere gli strumenti conservati nei musei a teche aperte e «soprattutto di poterli toccare: lì ho capito cosa era la liuteria antica. Quella moderna è molto pesante, ma se si prende in mano un mandolino barocco del ’700 non pesa niente, sembra una piuma. L’impressione che fa toccare un oggetto di artigianato di quell’epoca è straordinaria: uno si rende conto di che lavoro c’è dietro, quale incredibile manualità. Pochissime persone riescono a fare ancora questo lavoro realizzando spessori così sottili». Pochi in Italia i liutai che ricostruiscono strumenti musicali del Medioevo, ma in generale questa è una categoria molto esclusiva: «Io ho venduto moltissimi strumenti anche qui in Sicilia (il prezzo può variare dai 500 ai 4-5.000 euro) quando c’era la moda della musica medievale, ma ora questa moda è finita».

Ma la liuteria è ancora un’arte che può dare lavoro? «Penso di sì: ci sono due scuole importanti in Italia, quella di Cremona e la scuola Civica di Milano dove ci si può specializzare sia in restauro sia in costruzione. Certo, come per le altre professioni, si studia e poi si spera di trovare un impiego. Uno che studia restauro, ad esempio, può aprirsi un laboratorio proprio o può entrare a fare il restauratore in un museo. Ho d’altro canto conosciuto però tanti studenti di liuteria che poi hanno fatto un altro lavoro».

Ma in fondo cosa ha fatto realmente innamorare della Sicilia questo estroso professore, che per due anni, per fare un’esperienza estrema, ha vissuto senza energia elettrica e senza gas (a riportarlo a un certo punto a più miti consigli moderni, la moglie)? «La luce, anzi una particolare vibrazione della luce che c’è solo in Sicilia. Questo è il primo dato percettivo, poi ovviamente ci sono i dati affettivi legati ai ricordi dei miei nonni. Ciò che inoltre mi ha affascinato di più, però poi vivendoci, è il contatto che a Randazzo posso avere con la natura, con gli elementi naturali. Se io esco da qua, tempo tre minuti sono in un mondo che sembra l’Eden: non ci sono coltivazioni, non si usano diserbanti, è bellissimo. Vero è che la natura la potevo trovare anche altrove: in Francia, in Spagna, ad esempio, c’è tutto come qua, la storia, la pietra, il legno. Ma manca l’Etna, che è magnetico di per sé. E anche se non sono mai salito ai crateri, mi basta la presenza di questo vulcano. Lui c’è».

E c’è, presenza invisibile, anche quando, uscite dall’antica casa-museo, sotto la pioggia si torna alla macchina lungo le stradine medievali di una Randazzo silente, in questo quartiere quasi spopolato: e, se non fosse per qualche rara auto parcheggiata nei punti dove le “vanedde” appena s’allargano, diresti di essere viandante del Medioevo tra le casette di pietra viva. Ma ormai è tempo di tornare nel XXI secolo, con la musica antica che tuttavia continua a mormorare melodie senza tempo, facendo vibrare le corde più recondite del cuore.

 

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